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ALBUM  Track By Track

MISSING THE FOURTH - Un gioco di parole, uno scherzo musicale. Il racconto di questa canzone è intriso di un'ironia tragicomica. Il protagonista della storia si trova in una situazione idilliaca, pronto a passare una fantastica giornata di mare e di surf, con tutti i comfort del caso. Ma che succede? La sua tavola da surf non si trova, il suo compare è scomparso. Per ingannare l'attesa si fanno nuovi incontri ed esperimenti psichedelici. Il risultato è una sbornia colossale e, inevitabilmente, niente surf. Una mancanza espressa anche musicalmente poiché, come dice il titolo, manca un quarto nella strofa della canzone; da qui il suo incedere claudicante, su una base ritmica che trae ispirazione dalla “Summertime” dei leggendari Mungo Jerry, mentre le atmosfere giocose e corali del brano vogliono omaggiare i Calypso del grande Harry Belafonte, con un'eco di Giamaica e Caraibi. I temi di chitarra e sassofono ci fanno sognare il mare e le onde, ma così come la ritmica, anche i cori di molte voci all'unisono non fanno che ricordarci che manca sempre qualcosa.
Tutto ciò perché gli Unkle Kook amano il surf, ma non sanno surfare. Vengono dal mare, ma vivono in città. Come moltissime persone oggigiorno, sognano di ritrovare un contatto con la natura e di costruirsi una vita che gli assomigli di più, ma finiscono per perdersi nella tossicità di questo mondo moderno e frenetico, di cui siamo vittime e artefici. Riflessioni forse un po' ambiziose, ma la morale in fondo è quella di imparare ad accettare le contraddizioni, cavalcarle come onde e soprattutto non dimenticarsi che ridere fa buon sangue.
 

CICEK DAGI - L'unica cover del disco, arrangiamento di un brano del musicista turco Erkin Koray, che negli anni Sessanta fu il “Jimi Hendrix di Istanbul”. Il titolo significa “Montagna di Fiori” e infatti le orecchie si riempiono dei colori della psichedelia e del flower power alla turca, mentre le melodie di sassofono chitarra e basso si rincorrono, a tratti frenetiche, con dolcezza o beffarde. In poco più di due minuti, si srotola una composizione complessa, ma di facile comprensione, grazie alla sua forza melodica e alla sua suggestiva atmosfera mediorientale.

 

SHARK SPOTTIN’ - Non racconta nulla di complicato. Si sa che in certi posti di mare, in particolare se si vuole passare il tempo a mollo su una tavola, bisogna fare i conti con i “men in grey suits”, gli uomini in abito grigio, anche detti “squali”. È vero, non doveva essere difficile e in sole tre righe non si sà più se stiamo parlando di pesci e surfisti o di città e finanza, ma il tema della canzone non serve neppure averlo sentito per saperlo cantare e ballare è facile sul suo ritmo incalzante. Seguite il sax e andrete nella direzione giusta. Fate comunque attenzione agli squali, non hanno fretta, ma mordono per uccidere.

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FLOODED SALOON - La dimostrazione che il surf può essere cumbia, e che la cumbia può essere western, e che il western può essere psichedelia, e che la psichedelia cumbia western ci piace, a noi che suoniamo il surf. Ci troviamo su un set cinematografico, una città di frontiera in un deserto selvaggio e sottomarino. Cavalchiamo sul ritmo delle percussioni e del basso, una chitarra è affogata mentre l'altra ci sferza come una frusta; nel ritornello intravediamo una luce che proviene dalla superficie e seguendola riusciamo a tornare a galla per riprendere fiato, prima di rituffarci insieme al sax per esplorare questo fondale surrealista, dove bottiglie di bourbon e boccali di birra galleggiano intorno al pianoforte sgangherato di un saloon completamente immerso nel mare.

 

ASTRO: Sono i reattori di una nave spaziale, che esplodono in un fuoco che odora di cherosene, proiettandoci nello spazio siderale mentre sentiamo tutta la pressione dell'accelerazione gravitazionale. Una volta usciti dall'atmosfera, rimbalziamo da un asteroide all'altro e finiamo per intercettare un linguaggio sconosciuto e incomprensibile, presagio di avventure (o disavventure?). Ma si può surfare con maestria anche tra onde magnetiche e raggi gamma, così finiamo per atterrare morbidamente su un remoto pianeta alieno.

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BUSTED MOTORBIKE - Una corsa folle verso un ineluttabile incidente. Detto ciò, in un'ottica ciclica dell'esistenza, fine ed inizio non si contraddicono, ma sono semplicemente due punti consecutivi all'interno di una circonferenza.«Cosa? Ci siete cascati? Vi stiamo perculando, qua si porta Mingus in Romagna, a correre sui motorini elaborati verso la riviera il sabato sera. Sulla struttura di un blues minore chitarra e sax si lanciano a rotta di collo in un tema veloce e quasi un po' balkan, ma il tutto finisce in un'ode spassionata all'esercito del surf e agli anni Sessanta e le balere. Poi giusto il tempo di una smitragliata di basso e si finisce con un botto che ci proietta direttamente nell'oltremondo, dove planiamo con delicatezza fra gli echi dello schianto(s)» Unkle Kook.

 

RANGO - Sfrecciando su una statale infinita, dal tramonto all'alba, su una decappottabile di grossa cilindrata, un po' sudicia nell'aria polverosa. L'umidità sale dalla terra rossa e arida di un deserto marziano, mentre il sole fa capolino tra i canyon, gettando lunghe ombre sulla nostra strada, metafora di un futuro che ci attende, nostro malgrado. Ballad ecologista? Romanza nichilista? Dove si incontrano speranza e rassegnazione? I timpani e il basso scandiscono un tempo funesto. Il marcio della chitarra e il biascicare del sassofono si rispondono e si inseguono, poi si intrecciano in una danza come due amanti speranzosi, o disperati, senza mai riuscire veramente a stringersi. Il caldo che sentiamo non è quindi quello di un abbraccio d'amore, ma è l'afa, che ci incolla la sabbia sul viso, in un mondo che dell'acqua ormai ha solo il ricordo.

 

HOT SAND - Parte come un brano leggero, quasi indeciso, esitante. Il tema della strofa poi saltella, come quando la sabbia scotta i piedi e si fa una corsetta verso il bagnasciuga per rinfrescarsi, cercando un posto in spiaggia dove piazzare l'ombrellone. E allora, una volta comodi, si cavalca verso il mare dove si gioca, ci si tuffa, si nuota. Ma l'imprevisto è dietro l'angolo ed improvvisamente una tempesta di sassofoni e chitarre, che come un vento impetuoso ci trascina al largo e non ci molla, fino a che non è tutto perduto.

 

LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE - Una potentissima ballata noise rock, fatta appunto di due anime, due storie, impregnate di un'atmosfera oscura. Il titolo è un riferimento al celebre film di Alfred Hitchcock, il cui titolo originale è “Vertigo”. Infatti proprio come una vertigine, il brano ci attira in fondo a una spirale di paura. Nella prima metà della canzone, si inseriscono senza preavviso nelle sue sonorità delicate i timbri distorti delle chitarre, fino a che il tutto esplode in un assolo caustico, ustionante come acido sulla pelle. Solo sul finale le chitarre si dissolvono e tutto svanisce, lasciandoci il sospetto di aver avuto solo un incubo.Eppure...

 

SERT BEAT - Un inno punk alla perdita di senso, una danza estatica dedicata al rock'n'roll. La spina dorsale di questa follia musicale non può che essere un potente riff di chitarra, che non prende ostaggi e rade al suolo tutto ciò che incontra, tanto che gli altri strumenti non possono che rincorrerlo, per tutto il brano. Poi si cerca di riprendere fiato, mentre la batteria continua a spingere senza pietà fino a che un coro di cheerleaders in pieno attacco psicotico richiama le truppe al disordine, verso un finale meravigliosamente anarchico ma perfettamente coordinato. 

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